mercoledì 14 ottobre 2015

EMENDARE

v. tr. [dal lat. emendare, der. di mendum «menda, difetto»] Toglier via le imperfezioni, i difetti

Visto il recente dibattito sulla legge sulle unioni civili, pubblico il testo originale di un articolo pubblicato su https://biviopedagogico.wordpress.com/2015/03/28/buoi-e-tuoi-dei-gusti-tuoi/


«Quando ho capito che aleggiava lo spettro che il mio emendamento fosse un cavallo di Troia per consentire le adozioni ai gay — dichiara la senatrice del Pd Francesca Puglisi — ho preferito ritirarlo e salvare una legge che fa fare un importante passo avanti ai diritti dei bambini»
L’emendamento in questione prevedeva l’estensione dell’adozione ai singoli.
«Ritiro l’emendamento - ha concluso - perché so che l’ottimo a volte è nemico del bene e questa legge, se approvata, consente davvero di fare notevoli passi avanti in materia di diritti dei bambini».
Sia chiaro nulla è mai facile come sembra e non ritengo di aver approfondito a sufficienza la questione in modo da poter offrire il mio punto di vista. E’ invece interessante sottolineare i diversi paradossi che questa vicenda ha contribuito involontariamente ad evidenziare.

I Paradosso
La menzogna
Se solo fossimo sicuri che le coppie gay non facessero finta di essere single (cosa peraltro inevitabile già che non permettono loro di sposarsi), allora l’emendamento potrebbe essere anche approvato. Per ovviare alla questione basterebbe chiedere ai gay di fare un patto di ferro e di non camuffarsi da single, ma, niente, sappiamo tutti che sono talmente mefistofelici che pur di adottare i bambini si fingerebbero single e senza fidanzati.
Corollario al primo paradosso (o anche detto archetipo dell’opportunismo gay)
Già che i gay son proprio cattivi dentro, rinuncerebbero anche alla battaglia sul diritto al matrimonio tra coppie omosessuali pur di poter adottare dei bambini (e poi diciamocelo il matrimonio oramai non conviene nemmeno).

II paradosso
La salute
L’emendamento sarebbe approvabile se l’omosessualità venisse, finalmente, inserita nell’elenco delle malattie.
Basterebbe vincolare il single, candidato alla adozione, alla presentazione di regolare certificato di buona salute.
D’altronde se l’omosessualità non è una cosa normale, dovremo pur catalogarla in qualche maniera e sottrarla dal limbo in cui vagola da tempo. Lo status di malattia le restituirebbe una collocazione epistemologica certa e, tra l’altro, l’omosessuale potrebbe finalmente emanciparsi in termini di identità.

III paradosso
La trasmissione
L’omosessualità se fosse una malattia conseguentemente sarebbe trasmissibile.
Infatti è risaputo che anche la sola assidua frequentazione – figuriamoci una famiglia con genitori gay – induce tendenzialmente alla omosessualità.
I Corollario al terzo paradosso (per chi non crede alla trasmissibilità)
La trasmissibilità magari non avviene in forma meccanica e deterministica ma possiamo pur dire che certo crea un ambiente favorevole allo sviluppo della omosessualità o, comunque, più permissivo sul tema della omosessualità.
II Corollario al terzo paradosso (per chi non crede al favoreggiamento)
Forse è solo una questione di morale. L’omosessualità infatti è perlomeno immorale e se anche una coppia gay magari non dovesse trasmettere il seme della omosessualità di certo non educherebbe a condivisibili principi morali di base.
D’altronde i gay sono anche un po’ tutti pedofili. Non per niente non è il caso nemmeno che insegnino nelle scuole primarie.
III Corollario al terzo paradosso (per chi non crede nemmeno nella immoralità ma crede nell’educazione)
La coppia genitoriale è un modello che il figlio apprende e riproduce. Le coppie gay vengono ritenute capaci di riprodurre modelli genitoriali positivi. Si collocano quindi tra le più competenti sul piano della genitorialità.
IV Corollario al terzo paradosso (per chi ritiene che il corollario precedente non abbia centrato esattamente il problema)
La coppia genitoriale è sì un modello che il figlio apprende e riproduce. Ma offre un modello negativo. Come tutte le coppie devianti induce a deviare diventando omosessuali.
Prolungamento al IV corollario: o anche solo delinquenti in genere.
V Corollario al terzo paradosso (per chi ritiene che il corollario precedente debba spingersi un attimo oltre)
La coppia genitoriale è sì un modello che il figlio apprende e riproduce. Ma offre un modello negativo. Nel senso che crea traumi poiché il figlio non distingue più ciò che è normale da ciò che non lo è.
VI Corollario al terzo paradosso (per chi ritiene che il corollario precedente non abbia considerato l’evidenza e l’autenticità propria del problema)
La coppia genitoriale è sì un modello che il figlio apprende e riproduce. Ma offre un modello che desta problemi. Infatti non può che creare disagio o a traumi poiché il figlio è comunque costretto a fare una fatica in più che, data la sua storia di sfortunato figlio adottivo, dovremmo evitargli.
Prolungamento al VI corollario In generale anche senza avere chissà quale storia alle spalle, ma perché mai un figlio dovrebbe occuparsi di fare anche i conti con il disagio che produce la frequentazione quotidiana di genitori gay, sono pesanti!!

IV paradosso
Anormalità
Il figlio adottivo ha diritto a ristabilire un quadro di normalità genitoriale.
L’omosessualità anche se fosse tollerabile, una questione di gusti o una qualche categoria dell’essere certo non è normale.
I Corollario al quarto paradosso (per chi si intende di algebra e ritiene il quarto paradosso troppo giudicante)
Il figlio adottivo ha diritto a ristabilire un quadro di normalità genitoriale. E’ una questione algebrica: i genitori naturali sono due e sono del segno “più” e “meno”. Tutta la numerazione successiva deve sempre essere pari e composta da due opposti.
II Corollario al quarto paradosso (per chi ritiene che i problemi nella vita siano già abbastanza)
Il figlio adottivo ha diritto a ristabilire un quadro di normalità genitoriale.
Già che l’adozione impone di affrontare questioni specifiche di quella esperienza, la questione della omosessualità della coppia genitoriale aggiunge una problematica ce manda in tilt quella esperienza.

p.s.
Per taluni questi qui descritti non sono paradossi ma principi
p.p.s.
Se non avete mai avuto un accenno di sorriso leggendo questo testo ci sono solo due possibilità. O siete persone oltremodo seriose oppure viviamo in due mondi diversi. In ogni caso non vorrei mai frequentarvi. 

venerdì 22 agosto 2014

SE E' BUIO ACCENDI LA LUCE

Aggiungi didascalia
14  Aforismi e una riflessione a partire dalla domanda
“Quali sono le zone oscure dell’educazione?
Quali elementi ci sono nell’ educazione e nella pedagogia che, se non vengono valutati, portano l‘azione educativa ad essere “pericolosa” per chi educa e chi è educato?
Chi sono i cattivi maestri?
Oppure la pedagogia può  come disciplina, citando Marguerite Yourcenar,  saper guardare nel buio con disobbedienza, ottimismo e avventatezza e scoprire strade inusitate?” by #pedagogicalert

Quali sono le zone oscure dell’educazione?
1- Ultimamente la cosa più oscura che trovo nella educazione è l’educatore.
2 - Alle volte quello che appare più prossimo e lampante, all’educatore, invece, risulta stranamente oscuro e invisibile. 
3 – Il problema dell’educazione sta nel sostantivo. Dovrebbe essere solo un verbo e non un sostantivo. Non dovrebbe esistere il sostantivo educatore ma solo il verbo educare. (In ambiente anglofono, se non erro, il sostantivo educatore non esiste).
4 - Il problema dell’educazione è nato quando ne hanno fatto una professione.

Cosa, se non viene valutato, rende pericolosa l’educazione?
5- L’educazione è pericolosa quando la valutazione precede la verifica. Così come quando si giudica un film senza averlo guardato (mio fratello è figlio unico perché […]non ha mai criticato un film senza prima vederlo. R.Gaetano). 
6 - Quando si affronta un problema educativo bisogna sempre tornare a guardare in basso, alla base, per poter lanciare lo sguardo poco oltre. Quando lo sguardo mira lontano rischiamo di non essere più nel campo educativo.

Cattivi maestri
7  - Un cattivo maestro è chi sottrae la fatica invece di aiutare ad affrontarla perché è il primo che quella fatica non vuole sopportarla.
8 - I cattivi maestri sono coloro che invece di voler affrontare un problema lo vogliono risolvere.
9 - I cattivi maestri sono coloro che vanno a caccia di problemi al costo di inventarseli. Ad esempio: se mio figlio non ha un problema non mi sto prendendo cura di lui.
10 - I cattivi maestri sono coloro che se non riescono ad affrontare un problema allora lo sminuiscono e non lo considerano.
11 - I cattivi maestri sono coloro che riescono solo a dire che c’è un problema. Non conoscono altre parole, quale fatica, difficoltà, ostacolo, vincolo, fuga etc.
12 - L’educatore si è costruito una identità sulla caccia al problema. Per lui se non c’è problema non c’è movimento.

Guardare nel buio
13- Piuttosto che pensare all’educazione come ad una fiaccola che illumina ed apre lo sguardo preferisco pensare all’utilità di una lente che metta a fuoco e circoscriva il campo.
14 - L’educatore dovrebbe sapere che la sua condizione più autentica non è la conoscenza ma il buio. Brancolare nel buio aiuta di più a percepire la necessità di cercare un aiuto più di quanto lo permetta la supposizione.

Nota al troppo criptico aforismi n°3 e n°4– 
Il problema dell’educazione sta nel sostantivo
Il problema dell’educazione non sta nel verbo ma nel sostantivo derivato.
L’educatore è un sostantivo prodotto per derivazione dal verbo educare: quando si dice che le parole alle volte possono far danni.
L’azione dell’educatore si può esprimere pienamente anche con un sol verbo: educare. Ma se questo non bastasse a far comprendere di che azione si tratta si possono utilizzare altri verbi, più prosaiche spiegazioni o diverse ed illimitate declinazioni. Allo stesso modo qualsiasi valida parafrasi utile a spiegare il sostantivo educatore vale anche per il verbo da cui è derivato: educare.
L’educatore cosa fa? Semplice: educa. Questo è un fatto. Anzi una premessa - nonché una tautologia.
Al converso accade in altre professioni; ad esempio  per spiegare l’azione dell’idraulico non esiste un sol verbo ma è sempre necessario ricorrere ad una pluralità di verbi.
Questo per il sol fatto che educatore è un sostantivo derivato (per conversione) dal verbo educare al contrario del sostantivo “idraulico”.
Anche il mestiere di maestro non ha un verbo unico capace di assolve esaustivamente la significazione  del suo lavoro. Nessuno direbbe che il maestro maestra né esiste il verbo maestrare (esistono semmai derivati dal sostantivo: le maestranze o il verbo stesso ammaestrare, il cui suffisso “ad” orienta l’intero sostantivo allo - ad, appunto - scopo)
La sostantivazione del verbo educare ha generato l’equivoco più grosso che ha fatto credere che  l’educatore sia una professione autonoma in grado di bastare a se stessa.
Caso strano, perché il verbo educare può essere associato a tanti sostantivi al contrario del sostantivo “educatore” che esaurisce la sua azione nel verbo educare: l’educatore educa, ma anche il genitore - tra le tante azioni che svolge – educa; così come accade all’insegnante, al tutore, financo al ladro, al giudice ed addirittura all'architetto (e a mille altri sostantivi ancora).
Forse, se l’educatore si considerasse meno assoluto e più relativo, scoprirebbe che il buio è la sua vocazione, l’aspecificità, l’assenza di una determinazione diretta. In sé l’educatore brancola e deve brancolare nel buio. A differenza di altre professioni, l’educatore lavora solo se fa qualcosa, se prende parte ad una azione, se aderisce ad una mansione o ad una professione che può agire educazione. In sé, invece, in quanto educatore non può educare.
Non è un caso che la parola più amata dall’educatore è “la dimensione relazionale”; la relazione (di nuovo un sostantivo aspecifico) è il moloch salvavita dell’educatore. Peccato che la relazione in sé non è nulla, e quindi, di nuovo la relazione diventa significativa quando diventa relazione-educativa. Credendo così che due sostantivi che da soli non sono in grado di specificare nulla di ciò che vorrebbero descrivere, quando sono messi assieme e in sequenza, per l’educatore, assurgono ad un significato profondo, complesso e professionale.
L’educatore dovrebbe chiedere più aiuto alle altre professioni, con umiltà, forte delle domande e non delle risposte che può portare.
Non è un caso che non esiste il mestiere di educatore ma esistono tanti mestieri educativi. Come diceva il Maestro, l’educatore si riesce a spiegare solo se associato al contesto in cui esprime la sua azione: infatti esiste l’educatore con disabili, l’educatore con anziani, l’educatore con minori. Professioni che sostanzialmente sono assai diverse l’una dall'altra: spesso non hanno in comune quasi nulla, non condividono le stesse basi, assunti, regole, normative; lavorano su mandati completamente diversi e con modalità completamente differenti. Si pensi come cambia la relazione educativa tra l’educatore Giovanni e il minore Amedeo. Se Amedeo è un adolescente in un centro di Aggregazione Giovanile avremo una relazione completamente diversa con un Amedeo soggetto ad una messa alla prova o con un Amedeo disabile o con il povero Amedeo minore maltrattato. Stesso ragazzo, stessa età ma storie ed appartenenze esistenziali completamente diverse. Il paradosso non si ferma qui se pensiamo che i diversi genitori di tutti quegli Amedei, invece, condivideranno molte più cose di tutti gli educatori dei diversi Amedei.
Un educatore con 30 anni di esperienza in un campo (ad esempio i disabili) dovesse un giorno entrare in una comunità per minori sarebbe poco meno di un dilettante.
Il problema dell’educazione è nato quando ne hanno fatto oltre che un sostantivo, una professione.

venerdì 27 giugno 2014

GIANO

Una scrivania per due.
A tre anni e mezzo si conclude il piano triennale di arredamento della casa. Iniziato come un gioco si è trasformato in una passione.
Un ultimo pezzo bifronte, bello, per me divino; Giano. Non sono modesto quando si tratta della mia passione. Voglio stupire, dare piacere. Solo qui.

La mia perizia, così come la malizia, crescono.
Mantengo la vocazione al riciclo, al desiderio di raccontare una storia. Sul piano le trentennali mensole della stanza dove eravamo bimbi dialogano con  le assi ritrovate nel vespaio sotto casa.






Cresce la competenza con l'approdo alla saldatura: l'architettura delle gambe è composta da sbarre di metallo incrostate, arrugginite, ritrovate, al solito, in questa casa.




Aumenta  l'audacia nei tagli e nella composizione. Sperimento campiture, cerco giochi di colore. Su questo posso contare sulla bella compagna che da sempre, con me, progetta, osserva, interviene, riprende, rimbrotta, approva, alza di continuo l'asticella delle aspettative e della richieste. Che motiva: forse per questo desidero tanto colpire ed appagare.




Concludo il lavoro dandogli il nome del dio del continuo principio. Giano, il dio latino di gennaio che ogni anno principia permettendo così il momento del passaggio e quindi il divenire, il tempo.













Qui non chiudo il lavoro, mi sono attrezzato ad iniziare.



giovedì 9 gennaio 2014

IOLE CERCA CASA

Questa è Iole, ha circa 11 mesi, un pelo morbidissimo tricolore (bianco, grigio con un’unica macchia nera sulla scapola destra), è di taglia piccola, direi minima.
Il 29 novembre sera l’ho trovata sporca, malata, sfinita dagli stenti e dalla fame sullo zerbino di casa.
L’aria triste, l’abitudine di ritirarsi abbassando testa e orecchie per poi fuggire quando cercavo di accarezzarla, mi hanno fatto pensare a difficili passati, culminati con un abbandono. Curata ed accudita ha ripreso gradualmente peso e fiducia ed ora è una simpatica micina, giocosa e vivace, in cerca di casa.
E’ risultata positiva alla felv (mentre è negativa alla fiv); questa caratteristica, insieme al suo carattere socievole ma timoroso ne fanno una gattina speciale in cerca di persone sensibili, che abbiano voglia di proteggerla, amarla e godersela in un appartamento. 
Se siete interessati ad adottarla o volete  maggiori informazioni mandatemi una mail ad autoselfcamper@gmail.com

sabato 21 dicembre 2013

CURVE PEDAGOGICHE

Versione estesa di un mio contributo su http://biviopedagogico.wordpress.com/

Primo scatto: una notizia.
«L’idea sembrava geniale. Aprire la curva chiusa per i cori razzisti ai piccoli tifosi. Peccato che durante Juventus-Udinese i ragazzini abbiano insultato Zeljko Brkic, portiere della squadra friulana.» (Il foglio 3 dicembre 2013).
Secondo scatto: una spiegazione.
«Marotta A.D. della Juventus “noi abbiamo voluto riempire lo stadio perché, diceva un sociologo, “il calcio senza spettatori è pari allo zero”, era impossibile vedere delle tribune vuote» (Corriere dello Sport 2 dicembre 2013)
Terzo scatto: l’opinione.
«Paolo Pulici oggi allena i giovani ragazzi della Tritium a Trezzo d'Adda ed interpellato sui giovani e del cattivo esempio dato dalle famiglie: "La mia squadra ideale è una squadra di orfani. Molti rovinano i figli senza nemmeno rendersene conto. Non hanno raggiunto i risultati sperati e riversano sui bambini le proprie frustrazioni. Dai, diventa ricco e famoso, così possiamo comprarci la villa"». Corriere della sera 6  Dicembre 2013

Paolino Pulici, 172 gol con la maglia del Torino, è stata una mia bandiera, una delle ultime ma questo è un altro discorso.
Qui c’è tutto un mondo: il pedagogico che passando per lo sport diventa letteratura, di più, filosofia.
La sola idea di una squadra di bambini orfani sembra la trama ideale per una fiaba, per un racconto o perché no un film.
Niente di nuovo, sia chiaro, basta pensare all’ideale greco che assegna il primato della collettività alla dimensione privata della famiglia. La responsabilità educativa è innanzi tutto della polis prima che della famiglia.
Che dire poi del riferimento allo sport. Già perché qui non si dice la prepotenza, la provocazione,  il comunitarismo educativo richiede il suo primato quando si parla di sport. Un richiamo che non può non far pensare al ginnasio, la palestra dove formare l’uomo quale membro della città. Di più richiama l’ideale educativo comunitario più autentico e spietato : quello di Sparta e i suoi cittadini soldato. Già perché se la squadra è di orfani probabilmente anche l’orizzonte di vita atteso di questi orfani si dovrà spendere all’interno della dimensione sportiva. L’esperienza sportiva è autentica non solo per crescere la disciplina, le virtù sportive e le competenze connesse ma perché è l’esperienza sportiva è paradigma stesso dell’educazione.

Più semplicemente la possibilità di educare in assenza di genitori rappresenta il sogno pedagogico di ogni educatore, finalmente libero di lavorare senza fastidiose interferenze, plasmando al meglio la materia con cui si opera.

Ma c’è molto altro
L’affermazione di Pulici infatti non è una proposta metodologica, non un programma di lavoro ma è molto meno di un auspicio, piuttosto, uno sfogo dettato dalla frustrazione di non poter esercitare la professione di allenatore nel pieno del suo significato educativo. Lo sport, il calcio, si ritrova oramai ostaggio dei più bassi istinti dei genitori dei atleti , dalle aspettative di riscatto delle ambizioni frustrate dei genitori riverse sui figli, da una passione per la disciplina sportiva alimentata quasi esclusivamente dalla ricerca del successo e della ricchezza, non dal desiderio di crescita e dall’amore per il gioco.
Allenare senza genitori di torno è anche una manifestazione di impotenza: una disperata richiesta che qualcuno si prenda carico di educare questi genitori, già che lo sport non è più in grado di insegnare loro alcunché.  Il genitore non è nemmeno il destinatario dello sfogo perché, considerato oramai come l’attore di una vicenda educativa cui si farebbe volentieri a meno.

C’è da chiedersi come agisca il genitore la rovinosa azione disturbante. Facile immaginarlo mentre trasmette ed enuncia i propri valori e le proprie ambizioni rivolto ai figli, a tavola o nel tragitto per andare alla partita, oppure mentre impreca durante la settimana contro l’allenatore colpevole di far perdere la squadra o di non tenere nella giusta considerazione le doti del figlio. Ma l’azione più incisiva ed efficace del genitore è quando impreca dagli spalti, quando mette in scena il suo peggio. Quindi proprio quando entra nella parte che gli è assegnata dal dispositivo del calcio, altrettanto costitutiva del calcio come sport: lo spettatore, il pubblico ma soprattutto il tifoso.
Infatti, su questo aspetto, Marotta ha ragione quando sostiene l’insussistenza del calcio come spettacolo in assenza di un pubblico. Chi altri sono i componenti del pubblico, nei tornei giovanili, se non tanti e tanti papà che avrebbero il compito di conformarsi alle buone maniere e ai valori dello sport ed invece spesso sovvertono anche le minime regole di buon senso.
Ecco un primo paradosso che è bene sottolineare. Se il calcio ha da dire qualcosa sul piano educativo (e non mi sentirei mai di sostenere il contrario) sia pure, il calcio, si può manifestare e realizzare a pieno solo se ricompreso inquanto evento di spettacolo, al pari di una piece teatrale. Il calcio è spettacolo: c’è una ribalta, gli spalti, gli spogliatoi, gli attori, i registi, le regole entro le quali le azioni che si svolgono hanno un senso, un tempo finito, una trama, financo uscieri, bigliettai e vigili del fuoco e solo se tutti assieme si funziona si ha un buon spettacolo. Il tifo stesso è parte dello spettacolo senza il quale lo sport invece che competizione offrirebbe alla vista solo noiosi e poco significativi gesti atletici.

Chi può o forse chi deve educare questi genitori? Non l’allenatore (vuoi per abdicazione vuoi per convinzione) che non li riconosce destinatari della propria azione educativa, né gli atletici figli, figuriamoci, né la Federazione del Calcio, a meno che possa pensarsi un calcio senza spettatori, appunto.

Per centrare l’affermazione di Pulici ho provato a chiedermi se vale anche per altre discipline sportive.
Ad esempio «il centometrista ideale è quello senza genitori». Come potrebbe esistere un atleta dei cento metri senza un genitore che lo aiuta ad affrontare trasferte, che lo scorrazzi in giro. E quale genitore sogna successo e soldi in una disciplina dove di denaro ne gira ben poco.
Forse nel calcio questo invece potrebbe anche accadere. Nel calcio girano tanti soldi, certo più di ogni altra manifestazione sportiva almeno in Italia. Il sogno pedagogico si può realizzare più realisticamente nel calcio proprio in forza della sua rinomanza. Paradossalmente proprio quei soldi e la sua diffusione sono l’ostacolo per una autentica esperienza educativa calcistica. Già perché quel denaro si origina proprio dalla vocazione spettacolare, dalla notorietà, dalla spettacolarizzazione del gioco del calcio.
A pensarci bene l’unico senso che avrebbe il pensiero di un centometrista senza genitori sarebbe un segno di tutt’altro segno: quello del doping. E a pronunciare la frase potrebbe benissimo essere il preparatore atletico, il medico il farmacista dell’atleta. Nessun padre se sapesse cosa deve passare nel corpo del proprio centometrista accetterebbe di buon grado il rischio per la salute per raggiungere il primato sportivo.
E provando con altri sport, ancora, mi sembra che la frase funzioni poco. Ad esempio, il ciclista ideale non può essere orfano quando spesso il ciclismo è uno sport che si tramanda e si trasmette di padre in figlio

Ma è poi davvero un sogno operare in assenza di genitori. Non è semplicemente una aberrazione? Al pari di qualsiasi altra idea totalitaria. Più che sogno un incubo. L’impero del pedagogico. Nessuna esperienza può dirsi davvero educativa se non si sa confrontare con un contesto, con il mondo della vita. L’onnipotenza dell’educazione è il nodo contro il quale ogni educatore si scorna nella propria professione: l’incapacità di ritagliare il giusto ruolo all’educazione, parte di un sistema. L’incapacità di riconoscere i vincoli dello spazio entro il quale è possibile operare e della durata nel tempo di ogni azione, di obiettivo e di ogni verifica di risultato.
Di nuovo, quale esperienza educativa è possibile senza un ritorno costante al mondo della vita. Quale competenza è appresa se non è spendibile altrove.

In qualche modo e, certo, a suo modo la federazione del calcio ha provato ad affrontare un nodo della matassa e prova ad educare l’adulto negandogli la curva se non è in grado di corrispondere a semplici limiti morali ed etici. Qualche illuminato cerca di sovvertire le regole del gioco portando allo stadio i figli quale esempio per i padri, salvo poi scoprire che i padri restano sempre l’esempio dei figli.
In fondo anche l’allenatore, l’insegnante, l’educatore provano ad educare l’adulto formando i figli. Se un adulto sa ascoltare sa guardare il figlio che cresce può imparare che è possibile crescere quando si persegue la passione, la gioia e l’amore per il gioco.

Ed allora, caro Paolino, condivido questa affermazione perché rimarca il paradosso, amplifica il cortocircuito che non si può interrompere. E’ l’unico modo per attribuire a tutti il proprio pezzo di responsabilità.
Al genitore il compito si essere genitore e tifoso, cercando la migliore sintesi tra le due dimensioni.
All’allenatore il compito di proporre una esperienza sportiva agli atleti e di nominare ai genitori la posta in gioco.
Alla federazione che ha il compito di stabilire la misura dell’asticella, determinare e far rispettare le regole del gioco.
Allo Stato che ha il compito ultimo di marcare la differenza tra spettacolo - che in quanto tale è finzione, normato da leggi e regole che valgono solo all’ interno di quel contesto - e la delinquenza, l’illegalità.
Alla stampa che ha il compito di promuovere lo spettacolo senza impoverirne il contenuto con una spettacolarizzazione a tutti i costi.
Ai ragazzi il compito di farsene una ragione provando a prendere il meglio di tutta questa esperienza

sabato 22 giugno 2013

MANZONI [mobile bagno, maggio 2013]

Quando ho ritenuto di saper fare un lavoro allora ho pensato fosse giunto il momento di misurarmi provando a cambiare qualcosa: in questo caso il sistema costruttivo e il colore. Volevo dimostrare a me stesso che domino una tecnica perché ho il coraggio di slanciarmi in altro, perché so cambiare e al contempo so controllare il gesto. E' una vertigine. Invece più banalmente ovvero al fondo della storia, ho scoperto che so comunicare: tutti questi oggetti, voluminosi e importanti, visti assieme cominciano a parlare. Parlano di me.



Quello che mi stupisce non è che qualcosa parli di me ma che so comunicare anche quando non uso parole.
« Posso tranquillamente asserire che si tratta di solo gesso. Qualcuno vuole constatarlo? Faccia pure. Non sarò certo io a rompere le scatole. » Piero Manzoni

venerdì 21 giugno 2013

BULLDOG [comodini, marzo 2013]

Quelle logore quintine da teatro di strada hanno vent'anni. Oramai hanno dimenticato la loro funzione. Ed occupano spazio. Ma sono pur sempre legni cui dare un'altra occasione: fare il salto nel design.
Nuova vita come comodini, dall'aspetto fumettoso di cagnetti
E in due è meglio. Sempre.